testata articolo 1 gianluca taddei

Tratto dalla relazione al convegno La musica come progetto educativo, Roma, Palazzo dei Congressi, 16/10/2008.

Ritengo che sia oggi possibile, e necessario, tentare di ridefinire le arti terapie a partire proprio dall’arte, che è lo specifico vero di queste discipline. Nel farlo, tenterò di dimostrare che sia il setting scolastico che quello terapeutico vanno riconsiderati ed allargati perché sia possibile un’integrazione tra loro, necessaria se si vuole lavorare nella scuola con le arti terapie e la musicoterapia.

Il contesto scolastico ha, com’è ovvio, caratteristiche e peculiarità sue proprie, di cui non si può non tener conto quando si progetta prima, e si realizza poi, un laboratorio musicale e/o artistico che si ponga come obiettivo anche quello di operare a livello di relazione di aiuto. 

La locuzione “relazione d’aiuto” come sostitutiva di “terapia” è in questo caso quanto mai opportuna, per due ordini di motivi:

  • la polivalenza del termine terapia, che si tenta di definire e ridefinire sin dalla nascita delle arti terapie proprio per l’ambiguità che esso di fatto riveste nella pratica degli interventi a mediazione artistica
  • la peculiarità del setting scolastico “tradizionale” (inteso come “punto di giunzione tra tecniche e teorie”, Corino 1989), prevalentemente pedagogico o al più psicopedagogico, basato sul concetto di imitazione e assimilazione di un modello, centrato sul “testo” come punto di partenza e di arrivo (Corino, ib.) e sulla trasmissione (talvolta acritica) di contenuti.

La scuola, infatti, è luogo di apprendimento, non di cura; è luogo di relazione, ma non di terapia; la scuola è interazione, integrazione e molto altro ancora, ma in ogni caso è un ambito in cui la “presa in carico”, anche dei diversamente abili, non è di tipo terapeutico. 

I musicoterapisti in particolare si trovano in una doppia difficoltà. La prima concerne la definizione professionale, che si scontra con la difficoltà di lavorare ad un livello, quello terapeutico, che  richiede livelli di specializzazione “forti” (al punto che da taluni è ancor oggi contestata la possibilità di prestare un’attività professionale, tuttora non legalmente riconosciuta, in ambito terapeutico).

Nel contempo, ed è la seconda difficoltà, il musicoterapista non è un insegnante, e lavora alla creazione di un setting che non dovrebbe perciò essere scolastico, ma psicologico, centrato sugli aspetti intra e inter relazionali che caratterizzano la comunicazione di un gruppo, e non sull’acquisizione per via trasmissiva di contenuti.

Queste difficoltà sembrano così rilevanti da aver spinto gli stessi musicoterapisti a limitare in senso specifico il lavoro nelle scuole, definendolo come “preventivo”, allineandosi così anche sul piano terminologico con tutto ciò che a scuola ha a che vedere con la prevenzione e con l’integrazione.

Il problema è che quest’escamotage ha finito con il rendere quasi indistinguibile un laboratorio puramente musicale, da uno in cui la musica da obiettivo diventa mezzo.

Detto in altri termini, o si ritiene che facilitare la relazione interpersonale attraverso la musica sia già di per sé terapeutico, e allora diventa difficile individuare lo specifico della musicoterapia, oppure che il terapeutico nel musicale sia dato dalla destinazione, cioè dal fatto di riguardare o meno persone in stato patologico.

Ciò ha portato a sviluppare la musicoterapia soprattutto in senso riabilitativo, ad allinearla, a livello tendenziale, al più rassicurante paradigma medico -dove c’è una netta distinzione tra “sani” e “non sani” – al cui interno riabilitare sostanzialmente significa ricondurre ad un modello di persona “sana” definito in termini oggettivi e funzionali.

Molti approcci musicoterapici e di arte terapia, scientificamente fondati, hanno ottenuto in questo campo risultati così lusinghieri da aver ormai fatto uscire le arti terapie dall’alone indistinto e quasi magico in cui in Italia si continuava a recepirle.

Se ciò ha contribuito in modo decisivo alla visibilità, alla credibilità, alla definizione stessa delle arti terapie, si è però pagato il prezzo di restringerne il terreno di applicazione, e di appiattirle su definizioni di malattia, disagio, deficit, handicap fornite da altre professionalità (medici, psicologi, psichiatri). 

Credo perciò che sia il setting scolastico che quello terapeutico vadono riconsiderati ed allargati.

Strumento principe di questo allargamento di confini e di tale integrazione è il laboratorio. Senza tentare di addentrarmi all’interno di una discussione tutta da approfondire, mi limiterò a ribadire il punto per me essenziale: la necessità di emancipare il concetto di benessere e relazione d’aiuto da quello di patologia e terapia (cura e riabilitazione).

Un costrutto affine a quello di benessere è stato già elaborato in ambito musicoterapico, ed è quello di armonizzazione (Postacchini, Ricciotti, Borghesi, 1997), secondo cui l’obiettivo non è riabilitare rispetto ad un modello, ma sviluppare, per quanto possibile, attraverso la musica le capacità su cui ha senso far leva per ottenere una migliore integrazione delle parti fisiche e psichiche di quella specifica persona, rispetto al suo stato attuale ed ai prevedibili margini di miglioramento.

La qualità della vita di persone gravate ad esempio da condizioni di pluri-handicap può essere migliorata se, a partire dalla sostanziale accettazione dello status quo, che ha a che vedere con il deficit fisico sottostante, si lavori per incrementare le risorse disponibili in vista di uno sviluppo armonico degli analizzatori (senso-motori, cognitivi e affettivi) e delle capacità relazionali, il cui modello è quello madre/bambino.

Tuttavia, anche in questo caso ci si riferisce e ci si rivolge a persone con intenti riabilitativi, (in situazione di difficoltà tale che difficilmente saranno coinvolti in un’attività di laboratorio in una scuola), mentre lavorare con le arti a livello di relazione d’aiuto, e non di terapia, presuppone che i destinatari possano essere persone in situazione “patologica”, benché non gravissima, ma anche persone del tutto “sane”, ovvero esenti da patologie clinicamente definite.

In entrambi i casi, la relazione d’aiuto a mediazione artistica tende a far leva sulle parti funzionali delle persone, considerate soggetti attivi di un processo che ha per obiettivo finale la piena realizzazione delle loro potenzialità, qualunque esse siano.

Obiettivo questo, perfettamente coincidente con gli obiettivi della didattica più aggiornata che, discostandosi dal modello puramente trasmissivo, considera gli studenti, di qualsiasi età, come portatori consapevoli di valori, motivazioni, comportamenti, bisogni, e in quanto tali capaci, a vari livelli, di intervenire attivamente nel processo formativo, di cui non sono solo il prodotto ma anche e soprattutto gli artefici primari.

La pratica laboratoriale sembra del tutto rispondente a questa visione (figlia dei tanto criticati anni ’60 e della legislazione scolastica successiva oggi fortemente e semplicisticamente messa in discussione) che ritiene gli studenti come soggetti della formazione. Il laboratorio è in grado infatti di sviluppare prassi concrete di formazione attiva e personale.

Rispetto a questo, le arti si presentano come strumenti straordinariamente efficaci; ma in cosa si sostanzia la relazione d’aiuto a mediazione artistica?

Secondo il punto di vista che sto sostenendo, è necessario invertire il tradizionale “senso di marcia” delle arti-terapie, e partire proprio dall’arte (del resto, si dice “arte-terapia”, non “terapia-arte”). Nella relazione d’aiuto a mediazione musicale è di fondamentale importanza che sia l’altro a ricercare e trovare sviluppi originali all’interno della relazione con l’operatore, a farsi propositivo, ad essere artefice di sonorità “inaudite” perché soltanto da lui scaturibili.

Se partiamo dall’arte, partiamo conseguentemente dall’esperienza estetica, dalla capacità di creare e riconoscere qualcosa di bello. Ma cos’è “bello”?

E’ bello ciò che ci colpisce, ci attiva, è bello un tramonto, è bello un ritmo, è bella una tavola apparecchiata, e si potrebbe a lungo continuare, sino ad arrendersi all’evidenza che il bello si può esperire, ma non descrivere, se non a livello metaforico.

Del bello si può fare esperienza, e solo diretta, appunto perché indescrivibile; il bello è dunque una percezione, che prende corpo quando si trasforma in emozione; l’emozione, effetto e causa di reazioni fisiologiche, è il vissuto soggettivo che si lega alla percezione di un oggetto, di uno stato, che accede infine alla consapevolezza.

A fondamento della pratica laboratoriale all’interno della scuola si può dunque motivatamente affermare che:

  • l’esperienza estetica è accessibile a tutti;
  • il laboratorio sviluppa e favorisce una didattica attiva tra pari;
  • il controllo dei materiali non spetta solo all’operatore, ma è affidato alla gestione collettiva del gruppo;
  • ogni proposta ha pari dignità;
  • ognuno viene facilitato nell’apportare il suo contributo alla produzione del gruppo;
  • la sia pur apprezzabile definizione “diversamente abili” perde senso, poiché si tratta in questo caso di una definizione tautologica (ognuno infatti è diversamente abile rispetto a chiunque altro); 
  • il bello è espressione di un processo evolutivo e di consapevolezza di sé.

Conseguenza fondamentale è che, pur non essendo la creazione di un oggetto artistico l’obiettivo finale, quest’oggetto si pone tuttavia come parametro di valutazione della riuscita dell’intervento: una bella improvvisazione è terapeutica perché è una “buona” esperienza estetica.

Di nuovo, cosa è bello? 

Si tratta naturalmente di uscire dagli abituali confini estetici e anche dalle tradizionali letture dell’opera d’arte, e di riferire l’esperienza estetica al mondo soggettivo, fenomenologico, delle persone coinvolte.

Si allude alla soggettività, ma non all’incomunicabilità: all’interno di un determinato setting l’operatore deve creare le condizioni per cui le esperienze abbiano senso per tutti i partecipanti, mettendoli in condizione di contribuire attivamente alla costruzione dei significati.

Deve essere possibile comunicare l’esperienza artistica sulla base della condivisione degli scopi, delle idee creative, del processo inferenziale sottostante, riportando il tutto ad un livello il più possibile “di base” (secondo l’accezione di Boris Porena, 1999).

Ciò che potrebbe dunque apparire insensato, brutto, applicando le normali categorie di giudizio, a chi non ha partecipato al processo, può invece essere gratificante, bello, per chi dello stesso processo è stato artefice.

Per questo andrebbe a mio avviso limitata la tendenza, oggi quasi ossessiva nella scuola, a ricorrere al “saggio finale”: immaginare la costruzione di un lavoro artistico accessibile a dei fruitori esterni (il pubblico) significa entrare in una dimensione completamente differente di comunicazione, in cui si deve intervenire sul codice, sui significati, sulla struttura, perché sia possibile una reale condivisione dell’opera.

Se si decide, sin dall’inizio, che il risultato del laboratorio deve essere pubblico, occorre vincolare a quest’obiettivo, già dalle fasi progettuali, tutto il lavoro, orientandolo in modo affatto differente, anziché presentarlo, come spesso avviene, affidandosi alla magnanima comprensione (in realtà per forza di cose solo apparente) del pubblico amico (genitori e amici), abbagliato, oltre che da comprensibili legami emotivi, anche da un ideale di “produttività” (è sano chi è produttivo), in forza del quale se il proprio figlio rientra nei codici di produttività, allora è sano come gli altri.

Riporterò brevemente a questo punto due esempi concreti, il primo riferibile  alla pratica metaculturale, il secondo più specificamente alla relazione d’aiuto.

Nella pratica metaculturale il significato va sempre contestualizzato all’interno dello specifico e concreto gruppo di lavoro.

Raggiungere l’obiettivo di far eseguire simultaneamente ad un intero gruppo classe una semplice vocale, la “A”, è già rilevante, soprattutto se coinvolge anche i diversamente abili che ne fanno parte.

Eseguire di nuovo la “A” tutti insieme, dopo aver stabilito che sarà un bimbo a decretare con due gesti l’inizio e la fine dell’esperienza, è rendere concreta l’idea di integrazione.

Sperimentando che è gratificante emettere e terminare insieme un suono, ed è ancora più piacevole farlo con un suono “pianissimo”, sottile, che si spegne lentamente e lascia un silenzio carico di significato, si compie un’operazione estetica.

Nell’episodio a cui mi riferisco,  a dirigere l’esperienza fu M., una bimba di 8 anni con sindrome di Down, di solito agitata, talvolta prepotente e poco disposta a lasciare spazio ai propri compagni.

In quel silenzio da lei creato con il suo gesto, balenò una dimensione per lei nuova di relazione con gli altri, suggellata dall’applauso gioioso di tutti i suoi compagni quando “anche il silenzio era finito” (parole di un bimbo).

Nel secondo caso, un gruppo di studenti di un Istituto Tecnico, tra i sedici e i diciotto anni, accetta di partecipare ad un ciclo di incontri promosso dalla scuola stessa e dall’Associazione Atmos-artiterapeutiche.

Attraverso la pratica del laboratorio musicale  ci si propone di aumentare la motivazione allo studio dei ragazzi, e di migliorare la qualità delle relazioni reciproche e con gli insegnanti, improntate altrimenti alla prevaricazione e non alla collaborazione, allo scambio quasi violento più che alla comunicazione.

Nel corso di un incontro, un ragazzo romeno, pluriripetente, D., racconta la vita di un cantante piuttosto noto (non a me, invero), con cui sembra quasi identificarsi (canzoni impegnate, testi “contro”, voglia di rottura anche violenta con un presente che non lascia spazio).

Tramite il suo cellulare fa ascoltare a tutti il brano per lui più significativo di questo cantante, e per la prima volta la corazza dura che ha sempre mostrato si ammorbidisce: “Questa melodia mi commuove”, dice.

Colgo l’occasione e gli chiedo cosa vuole fare con questa commozione; “Suonare”, risponde.

Allora anche l’atteggiamento di solito quasi rissoso dei suoi compagni cambia, e subito tutti prendono uno strumento a percussione ed iniziano a suonare un ritmo simile, ma non ricercatamente uguale, al brano ascoltato, dividendosi i ruoli, mostrandosi abili, includendo nell’esecuzione, per la prima volta senza commenti, anche E., “quello con il sostegno perché pare scemo”.

D. intona la canzone, ma soffermandosi solo su una parte della strofa, in un loop quasi rituale. L’accompagnamento degli altri è preciso e attento, di “qualità”, la registrazione ascoltata a posteriori sarà una “bella” musica, anche per chi non era presente quel giorno, e la ascolta perciò da un punto di vista puramente musicale.

In conclusione, la sfida che oggi hanno di fronte le arti terapie, se vogliono divenire un concreto strumento di lavoro capace di valorizzare anche le specificità del sistema scuola e di collaborare proficuamente con esso attraverso la pratica laboratoriale, consiste nell’affiancare al paradigma medico quello della ricerca e dello sviluppo del benessere e della felicità

È una ricerca profonda- in grado di incidere nei preesistenti schemi cognitivi e comportamentali dei soggetti e trasformarli- nella quale pensiero, emozione ed azione si integrano grazie alla condivisione con gli altri dell’elaborazione dei progetti (autogeneratività), alla riscoperta e valorizzazione dell’ambito affettivo ed emotivo (esperienzialità e fenomenologia), alla creazione di atti e prodotti estetici (il suonare, il dipingere, il mettere in scena, il muoversi…). “E’ un compito impegnativo proprio perché si entra nelle maglie della vita “normale” per aiutare l’altro nella ricerca del suo senso di esistenza” (M.G. Cecchini, 2002).

Dove conduce questo nuovo paradigma? Fondamentalmente verso la capacità di auto-aiutarsi, all’interno di un processo in cui non si apprendono solo dati e procedure, ma strumenti di lavoro per il proprio benessere, attraverso l’interazione con gli altri (socializzazione) e con se stessi (introspezione).

In questo tipo di laboratorio, come detto, non esistono per definizione differenze tra i membri di un gruppo, poiché ognuno mette in gioco la sua particolare creatività. E’ rispetto a questa creatività che si richiedono competenze specifiche all’arte-terapeuta, e la più specifica di tutte consiste nella capacità di cogliere l’elemento creativo là dove non sembra esserci altro che espressione immediata, sfogo emotivo.

“Ristrutturare” in questo caso non riguarda la personalità (ciò è terapia, e per questo ci sono gli psichiatri e gli psicoterapeuti); riguarda piuttosto il prodotto artistico, cui va data una forma riconoscibile, una struttura osservabile, spesso da inventare (nel senso etimologico di in-venire, trovare all’interno).

Questa ”invenzione” è il passaggio che ci conduce dall’oggetto al fenomeno (P. Quattrini, 2007), dalla dimensione cognitiva a quella delle emozioni, da sempre terreno d’elezione di ogni arte e di ogni pratica che alle arti voglia riferirsi.